Dopo l’ultima accelerata tra le colline delle murge il treno aveva ormai intrapreso un’andatura più rilassata, con quel tipico “dlon dlon” delle ruote che stridono sulle rotaie che sembrano più vicine perchè si va più lenti. Un uomo sulla quarantina si alzò dallo scompartimento, si mosse incerto nel corridoio, andò verso un finestrino e lo aprì sorridendo. Una vampata di cattivi odori, mefitici, così disgustosi da chiudere la bocca dello stomaco invase il vagone.
L’uomo richiuse il finestrino soddisfatto e ritornò al suo posto con il sorriso sulle labbra, mentre il treno attraversava la stazione di “Cagioni”. Lanciò uno sguardo verso un altro viaggiatore che lo osservava interrogativo, e spiegò: “Quando sento questa puzza vomitevole, so di essere tornato a casa”.
Il rapporto tra Taranto e l’industria può essere sintetizzata da questa scenetta, cui ho assistito anni fa. Non si tratta solo di Ilva, perché anche il porto, la Cementir e la raffineria Eni non è che producano profumo di viole, però è chiaro che il siderurgico, grande due volte la città, fa la parte del leone.
I dati sono impressionanti e non voglio riportarli qui, migliaia di morti riconducibili all’inquinamento, decine di aziende agricole o legate all’allevamento costrette a chiudere per la presenza della diossina nei loro prodotti, allevamento dei mitili – uno dei gioielli di Taranto – in ginocchio, visto che un paio d’anni le cozze non sono più commestibili per la presenza di PBC velenosi, il turismo frenato dalla presenza di spiaggie meravigliose ma in tratti di costa non più balneabile.
Tutto ciò per i tarantini non è una novità. C’è un disegno geopolitico che risale agli anni cinquanta che vuole legare Taranto indissolubilmente al siderurgico e al porto militare, evitando qualunque altro tipo di attività che possa disturbare i manovratori di Roma. Questo perché l’acciaio serve, alle industrie settentrionali, che però rifiutano la puzza, e serve anche un porto militare pronto all’uso nel mediterraneo, di fronte al medioriente “bollente”.
Clini, il ministro per l’inquinamento ambientale, nel 2000 diceva ““La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. Peccato si riferisse a Genova. Chi se ne frega di Taranto, Taranto deve morire, sacrificato sull’altare della produzione nazionale.
Si calcola che in vent’anni siano più di centomila i giovani e meno giovani che hanno lasciato la città cercando fortuna altrove. Dieci volte il numero di quelli che invece sono rimasti a lavorare nell’indotto dell’Ilva. Solo che di loro apparentemente interessa poco, così come interessa poco degli allevatori, dei contadini, dei miticoltori, dei malati oncologici.
L’azione della magistratura di questi giorni rappresenta una novità perché, per la prima volta da sessant’anni, dice che i tarantini sono cittadini come gli altri italiani. Non sono cittadini di serie B (magari: la squadra avrebbe conquistato la promozione ma poi è stata cacciata in serie D, ma questa è un’altra storia). Hanno diritto a industrie – siderurgiche, anche – che rispettino i vincoli ambientali e non semino morte, come in Corea, in Germania, Belgio.
La soluzione sembra ovvia, per una volta darebbe ragione persino al cerchiobottismo di Nichi Pendola (con i lavoratori ma anche con i padroni, con l’ambiente ma anche con la diossina, con la sinistra ma anche con la destra): i Riva sistemano il siderurgico e tutto torna a posto.
Io temo non sia così semplice. I Riva non sono “cattivi” che vogliono inquinare. Anche perché l’Ilva inquinava ugualmente, e forse di più, quando era pubblico. I Riva sono capitalisti e vogliono fare profitti, come chiunque si muove in questo mercato, e il mio timore è che se si dovesse rivelare vero che hanno corrotto politici e funzionari a destra e sinistra, spendendo un sacco di soldi, anziché mettere a norma lo stabilimento, è perché corrompere costa tanto, ma mettere a norma costa di più.
Il mio timore è che ripulire Taranto costi talmente tanto che i Riva cerchino solo un’occasione per liberarsene, e magari aprire in Cina o Brasile, dove ci sono più spazi da inquinare e una magistratura meno “invadente”. Si tratta di un timore, spero di essere smentito. Anche se mi domando se, con tutti quei milioni di euro per l’Ilva, non si potrebbero investire progetti per reimpiegare gli operai e dar loro un lavoro in altri settori. Chissà.
Intanto però l’Abramo tarantino ha condotto suo figlio Isacco sull’altare e si prepara a sacrificarlo. L’angelo grida di non farlo, che non è necessario, ma chi ascolta più gli angeli?
I ministri gridano più forte, e la puzza mefitica invade i vagoni.