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Quo vadiz, baby?

Salvatores torna al cinema di “genere” e questo è un bene per un cinema italiano che si inaridisce nei canoni ritriti della commedia. Il genere stavolta non è rischioso come per Nirvana di qualche anno fa (la fantascienza) ma è comunque impegnativo, il noir psicologico. Come al solito è un maestro nel muovere la cinepresa, nel dirigere gli attori, nel calibrare il linguaggio con toni ora drammatici ora ironici. Come spesso, però, ne è troppo consapevole, induce nella cinefilia, nel gusto della citazione autocompiaciuta, esagerando talvolta sino che scadere in passaggi di lirismo velleitario (soprattutto nelle riprese della defunta protagonista troppo velina per l’88 e quel suo insopportabile “Roma è come una pxxxxna, bla bla) e nella fotografia calligrafica a buon mercato (so benissimo mio malgrado che Bologna è una città piovosa e cupa ma questa sembra la Londra di Jack lo Squartatore).
Tra alti e bassi è soprattutto la sceneggiatura a incespicare: non ho letto il romanzo da cui il film è tratto, ma le coincidenze e i passaggi poco naturali sono troppi per farsi perdonare, e i colpi di scena sono imprevedibili come una pernacchia nei film di Pierino. In sintesi, caro Salvatores, bene la sperimentazione, bene gli attori (tutti bravi, dalla protagonista ai ruoli minori), bene le musiche. Bene anche aver visto tanti film e aver studiato tanto. Però non c’è bisogno di ricordarcelo ad ogni inquadratura…