Se qualcuno dovesse ritare fuori la solita storia del cinema italiano in crisi, chiedetegli se ha visto "Il posto dell’anima". Un cinema in crisi non produce storie così: attori straordinari (d’altronde, sono i migliori che abbiamo in Italia: Silvio Orlando,Santandrea, Paola Cortellesi, Michele Placido), fotografia mai banale senza scadere nel virtuosismo, regia sobria ma intensa, sceneggiatura perfetta. Si ride e si piange, si riflette e ci si indigna. Uno di quei film che scuotono gli amanti di cinema perché riescono a riportare in fermento razionalità e passione. Qualche difetto forse c’è, inutile nasconderlo, un po’ di retorica, qualche accelerrazione sul pedale del dolore (o del dolorismo), ma c’è anche il gusto dell’inventiva, della citazione, del racconto, una colonna sonora moderna ed indovinata. Se poi aggiungete la bellezza mozzafiato degli appennini, la provincia italiana più caratteristica e addirittura due capatine a Bruxelles e in America, capite che questo prodotto di certo non scaccia la crisi da solo, da di sicuro non ne è espressione.
Guardatelo.
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Arrivederci amore ciao
Uno pensa: che bello, finalmente un film italiano nero, tenebroso, uno fuori dai soliti schemi della commedia con la crisi generazionale. Poi guarda "Arrivederci amore ciao" e si rende conto che se gli italiani fanno sempre commedie un motivo ci sarà. Per comprendere il film bisogna tenere presente che il regista Michele Soavi è stato aiuto regista di Dario Argento. Ora, l’aiuto regista è uno che guarda il maestro, cerca di rubargli i segreti del mestiere e magari gira anche qualche scena, quelle più piatte che il boss non ha voglia di curare. Spesso i grandi registi sono stati prima ottimi aiuti; altrettanto spesso, però, questi ultimi dei grandi rubano soprattutto la tecnica ma non l’estro. Michele Soavi è uno convinto che la differenza tra fiction e cinema consista nel fatto che i film possono essere infarciti di soggettive inutili, inquadrature sghembe, artifici sonori e giochi di luci da spot pubblicitario dozzinale. La conseguenza è la continua rottura della sospensione dell’incredulità, perché appena lo spettatore sta per immegersi nella storia ne viene risucchiato fuori da un fuoco d’artificio del regista che gli ricorda "ehi ehi sono qui, ci so fare con la cinepresa eh?". Soavi ha fatto tanto fiction e sente il bisogno di sfoggiare la sua creatività, ma il risultato è un polpettone squilibrato nella sceneggiatura, impregnato di qualunquismo moralista, che si regge in piedi solo grazie alla bravura degli attori (soprattutto Michele Placido, fantastico, mentre Boni è fuori parte e Isabella Ferrari una bellezza sprecata). Il ritmo si regge solo grazie a massicce di violenza brutale, belle canzoni di sottofondo e la cara voce fuori campo, salvagente di sceneggiatori in crisi. In conclusione, ci auguriamo che Soavi torni a fare della fiction, dove certe libertà non gli sono concesse, mentre noi preferiremo ricordare "Insieme a te non ci sto più" per l’immensamente più degno "La stanza del figlio".