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Un urlo nel buio

Di là del muro, nella stanza buia, l’uomo legato sta urlando. Faccio un bel sorriso. Uno di quelli che mi stampa in fronte “Te l’avevo detto io” come le insegne lampeggianti di certi locali di periferia.

È lui il capo. Il padrone. È lui che firma i contratti e incassa. Mi tocca pagare una stupida femmina che sgrassa i macchinari e ripulisce gli arnesi, si è lamentato con il commercialista quando ha dovuto regolarizzare la mia posizione. Senza i documenti in regola non avrebbe più vinto un appalto pubblico. Però pretende che gli restituisca un terzo dello stipendio che mi liquida. In contanti: se mi lamento, ha già la mia lettera di dimissioni firmata.

Ci metto cinque minuti, aspettami su, mi ha ordinato mentre si calava. Di tempo ne è servito molto di più, la sua torcia si è scaricata. Adesso è al buio e sbraita.

Gli insulti riecheggiano nello spazio vuoto. Lo illumino con un fascio di luce tremolante. Lui sbuffa. Ricomincia ad armeggiare con la sua attrezzatura, limitato dall’imbracatura di sicurezza che lo tiene legato come un salame.

Non vuole che lo veda all’opera perché ha paura impari, me ne vada e gli rubi i clienti. Le pivelline come te pensano di sapere tutto perché hanno una laurea in ingegneria. Ma io il mestiere ce l’ho nel sangue, e quello non si insegna.

Pulegge e arcano sono a posto, gliel’ho suggerito due ore fa, ma adesso che è lui a pontificare con supponenza, l’affermazione assume tutto un altro respiro
–  Che guardi, cretina?
– Capo, secondo me è saltata la scheda. Devo andare a prenderne una nuova nel furgone?
– Tu non fai un bel niente se non te lo ordino io. Non sei capace nemmeno di tenere una torcia, figurarsi
Mezz’ora dopo strilla di nuovo. Ha risolto il problema: bisogna cambiare la scheda. Che te ne stai lì impalata, vammela a prendere dal furgone. L’ascensore è bloccato dieci piani sopra di lui. Le misure di sicurezza lo tengono ben fermo. Anche se una fune metallica si spezzasse, anche se si spezzassero tutte, un paracadute istantaneo ne arresterebbe la caduta.
A meno che.

Ogni giorno in Italia ci sono tre morti sul lavoro. Chissà chi saranno gli altri due a cui toccherà oggi.

Il silenzio di Suviana

Avvicinarsi a Suviana vuol dire avventurarsi in un viaggio nel silenzio più profondo. Perché se c’è qualcosa di peculiare di queste vallate, di questo bacino costruito dall’uomo per accendere le lampade in città, di questo spazio verde ai confini dell’Emilia-Romagna è proprio il silenzio. Persino d’estate, persino quando le famiglie frequentano la spiaggetta per mangiare al fresco, persino quando gli appassionati di sport acquatici indossando le loro mute per veleggiare lontano, persino allora il silenzio ti avvolge e ti invita alla meditazione.

Però non può passare in silenzio la morte di sette persone. Una morte che speriamo sia stata rapida e indolore, perché per associare un’esplosione, un crollo e un allagamento ci vuole una mente capace di andare oltre l’orrore.

Sette tecnici venuti da lontano che in fondo a quel pozzo hanno concluso la loro esperienza di vita, senza neppure il tempo di voltarsi indietro a salutare. Perché uno che va a lavorare non lo mette in conto di poter morire. Per carità, forse gli astronauti, i piloti di competizioni automobilistiche, qualche pensiero cupo in fondo alla coscienza ce l’hanno: ma non è un caso che si tratti di esperienze al limite e peraltro tendenzialmente ben remunerate, anche se poi non c’è compensazione che tenga in caso di morte. Ma quei tecnici avevano chiacchierato in pausa pranzo, parlato magari del campionato di calcio o delle vacanze da pianificare, qualcuno avrà accennato forse al collaudo della turbina, chissà. Magari c’era quello vegetariano che ha chiesto se si poteva avere una piadina senza affettato, quello che mostrava le foto dei nipoti nel cellulare, quello che preferiva stare leggero sennò poi sai che sonnolenza.
E non ci sono più.

In attesa che si chiariscano le cause dell’incidente, che gli inquirenti facciano il loro lavoro, aboliamo per favore la parola fatalità. Il fato non c’entra. Se il cuore ti si ferma mentre dormi e però da anni tu non facevi delle analisi per controllare le tue condizioni, non è una fatalità, è noncuranza. Se la tua automobile esce fuori di strada sotto la pioggia perché hai i pneumatici consumati non è fatalità, è imprudenza. Se il tuo medico non si accorge di una malattia e ti rimanda a casa e poi muori, non è una fatalità, è incompetenza.
Anche per i mestieri più complessi ci deve essere una accurata valutazione dei rischi, una prudente stima delle possibilità che qualcosa possa andare storto, e una analisi fatta con competenza. Perché se di Suviana si è parlato tanto, è perché sono morte sette persone insieme. Per quanto sia cinico dirlo, la verità è che se fossero morte in sette posti diversi, non ne avrebbe parlato nessuno. Perché muoiono lavorando più di mille persone l’anno, tre al giorno.

Non solo per le comunità di provenienza dei lavoratori, ma anche per la comunità di Camugnano sono stati giorni molto dolorosi, vorrei mandare un abbraccio a tutti loro. Ahimè gli abitanti da quelle parti ormai sono così pochi che potrei davvero abbracciarli tutti uno per uno e non metterci troppo tempo: ma mi limito a un sostegno fatto di parole, che sono gli strumenti a me più consoni.

Ancora una volta, come così spesso mi è capitato di scoprire lavorando da quelle parti, la gente scopre l’Appennino solo in caso di tragedie. Ma l’Appennino è molto altro. Suviana è un posto meraviglioso che invito a visitare a chiunque cerchi un po’ di tranquillità e meditazione.
Un posto dove deve tornare a regnare il silenzio della pace, non quello della rassegnazione.

Morire sul lavoro non è una fatalità, è una vergogna.