“Le parole sono importanti” gridava Nanni Moretti in Palombella Rossa, e aveva ragione da vendere. Specie poi se sono parole ripetute quotidianamente in maniera più o meno consapevole come accade nelle preghiere.
C’ha messo una cinquantina d’anni – la tempestività non è mai stata una sua prerogativa – ma la comunità episcopale italiana si è resa conto che no, non può essere Dio a indurci in tentazione, come ripetiamo nel Padre Nostro da quando abbiamo imparato a recitarlo in italiano. “E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”. La frase – o meglio, la traduzione dal greco evangelico – è un macigno, perché sottintende che sia Dio a indurci in tentazione. Ma quando mai? Lo sanno anche i bambini che conoscono la favola di Adamo ed Eva (non fate finta di essere creazionisti, lo sappiamo tutti che è una favola) che è il serpente a tentare Eva, e Dio semmai aveva solo chiesto di non mangiare del frutto proibito, che è una cosa diversa. Non è che se la legge dice non uccidere, così facendo ti induce a uccidere. A meno che tu non abbia un profondo istinto da fuori legge e ti senti tentato a fare sempre il contrario di quello che ti chiedono, ma allora è un problema tuo.
E lo stesso Gesù nel deserto viene tentato da Satana, mica da Dio. A meno che non ricolleghiamo tutto ad una serie di divinità e ad un concetto di bene e male sfumato, ma allora diventiamo gnostici.
Per quello che ci hanno insegnato, Dio è buono e non tenta, il diavolo è cattivo e lo fa. Al limite, il Padre Eterno ogni tanto si distrae, questo sì, ogni tanto lo fa.
Per cui, sia ben venuta la nuova dizione, che invoca “e non abbandonarci in tentazione”. Un po’ alla volta, la chiesa di arriva a capire i suoi errori.
Chissà che di questo passo spedito fra un paio di secoli i vescovi non cambino idea sulla fecondazione assistita e la contraccezione…