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Parole d’amore

Uno che al cinema va a vedersi un film che si chiama "Parole d’amore" un po’ se le va a cercare. In effetti. Ovviamente non volevo vederlo, sono stato trascinato da una serie di eventi contrastanti e dalla necessità di non imporre sempre i miei gusti cinematografici. In altre parole, ogni tanto è giusto sorbirsi una cavolata, per il gusto di poterlo rinfacciare a chi te l’ha imposto.
Ma qui siamo anni luce oltre i confini della cavolata, qui siamo al festival dell’insopportabile, al circo della noia, cavalchiamo le onde del mattone indigesto che atterra con violenza a frantumare i gioielli dello spettatore. Mi aspettavo una lagna tipo Se scappi ti sposo, questo va oltre il ridicolo involontario.
La storia: un professore di cabala figo (Richard Gere, che però in una insulsa scena di sesso conclude il rapporto il 5 secondi e delude perciò anche le fan più oltranziste) ha due figli antipatici. Il maggiore è un secchione che trasuda boria, la minore ricorda il protagonista del Sesto senso, solo che quello aveva lo sguardo stralunato e la voce sottile perché vedeva i morti, questa ce l’ha solo per irritare gli spettatori. Il primo scappera con una hippy bionda con gli occhi azzurri che frequenta una comunità tibetana (tutto molto credibile), la seconda vince gare di spelling. Il problema è che gli autori hanno sciaguratamente deciso di tradurre queste gare: ma mentre può anche risultare appassionante per un americano sapere come si scrive correttamente botany per un italiano lo spelling di origami è semplicemente demenziale. La moglie del professore, poi, passa il suo tempo a rubare chincaglierie perché vuole bloccare la luce, mentre, dulcis in fundo, la piccola sembra andare in estasi, guidata dal padre, cambiando l’ordine delle parole. Insomma, un polpettone new-age indigesto, che mescola argomenti seri (il misticismo, la società multi-religiosa) con cadute di stile incredibili (la piccola campionessa di spelling ha le visioni durante tutte le gare). Insomma, un’ora e mezza di boiate che hanno pure la presunzione di essere cinema d’autore. Unica emozione: ad un certo punto un cane abbaia furiosamente spaventando la Binoche.
E svegliando di soprassalto la sala.