Per anni si è discusso se fosse più opportuno pronunciare il termine latino ma reimportato dall’inglese "media" oppure "midia".
Alla fine ha prevalso quest’ultima versione, rafforzata dal fatto che gli antichi romani quando parlavano di media certo non pensavano ai mezzi di comunicazione di massa (i mass-media, appunto). Però la J ("i lunga", la chiamavamo a scuola) è una lettera che è stata latina millenni prima di diventare inglese.
E che i latini pronunciavano "i": ricordo un compagno di elementari che faceva il tifo per la "Giuventus", ma veniva irriso e preso in giro da tutti quanti.
E con lo stesso malcelato scherno dovremmo irridere quei professionisti, giornalistuocoli o capetti aziendali che hanno cominciato a pronunciare "giunior", all’inglese, il latino junior, o peggio ancora con accento degno di Oxford si definisco "sinior" (pronuncia inglese del latino senior). Anni di corsi serali per cercare di recuperare la loro cronica ignoranza della lingua di Albione li ha portati a imparare questo, un paio di parole pronunciate male.
Che jella. Anzi, che "giella", oh yeah
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Faccioni in copertina
Una volta si distinguevano i libri più smaccatamente commerciali per la presenza sulla terza di copertina della foto dell’autore. Se il viso conosciuto di una star che non disdegna salotti televisivi ed è così simpatico nel promuovere l’opera vale più di quest’ultima, conviene puntare sul nome.
Niente di male, per carità, sono strategie di marketing che puntano soprattutto ad accalappiare il regalatore di libri, quello che non li legge ma li regala a Natale per darsi un tono.
Adesso però le case editrici hanno fatto un passo avanti, e il faccione dell’autore lo piazzano addirittura in copertina: mi è capitato di dare un’occhiata ad un libro con la Gruber, uno con Morelli e un altro con Signorini, lo specialista dei pettegolezzi.
Per quanto mi riguarda, si tratta di un bel passo avanti: adesso posso evitare i libri sgradevoli senza dover sbirciare la terza di copertina…
The interpreter
Non è facile coniugare un thriller che rispetta fedelmente i canoni del genere (ritmo, suspence, intrigo) con un tema sociale di difficile gestione come la situazione politica in certi stati africani. Ci voleva il genio di Pollack e la bravura di due attori del calibro di Sean Penn e Nicole Kidman (quest’ultima molto più a suo agio nel ruolo di terzomondista impegnata e idealista che in quella di femme fatale che le hanno affibbiato ultimamente). Penn è una maschera di sofferenza e rabbia soffocata, capace di raccontare con uno sguardo a mezz’asta la disillusione di un uomo ad un bivio; la Kidman è bella come sempre ma anche misteriosa e affascinante. Un film da vedere, insomma, in cui niente è scontato (e mi fermo qui per non fare dello “spoiling” come si dice adesso), e la cura maniacale dei dettagli realizza un affresco che si dipana davanti a noi un po’ per volta lasciandoci, negli ultimi passaggi, un briciolo di sana incaxxatura, come ogni film che racconta una realtà scomoda dovrebbe fare.