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Trenta

Era un 14 settembre.

Un ragazzotto smilzo si aggirava per le strade di una città incontrata per caso.
Aveva deciso di studiare scienze della comunicazione perché gli piaceva scrivere e pensava sarebbe stato bello farne una professione. Chissà, magari sarebbe diventato persino uno scrittore di successo.

All’esame di maturità gli avevano detto che la scrittura non faceva proprio per lui.
Così, con l’autostima sotto i piedi, aveva azzardato una scommessa: provare a superare quel test di ammissione che offriva pochi posti per migliaia di aspiranti.

I test si tenevano nello stesso giorno a Torino, Salerno, Roma, Siena. Aveva scelto la Toscana, poi a Siena c’erano diverse persone che conosceva già. Aveva scoperto che, chissà perché, c’era un’altra città che il test lo faceva una settimana prima: proviamo, si era detto, servirà come allenamento. Quella città anarchica, entusiasta e caciarona era Bologna.

Ed eccolo lì, in un albergo di via Galliera, che a una certa ora della sera non è che gli avesse fatto un’impressione eccellente. Non c’era anima viva in giro, e quelle poche che c’erano non sembravano boy-scout. Quelli che giustamente denunciano gli eccessi turistici di oggi dovrebbero ricordare anche certe zone cupe della città dell’epoca.

Niente turismo per lui, doveva essere fresco per la prova del giorno dopo.
Comprò una rivista in edicola, guardò un po’ di Ajax-Milan in tivù, poi a nanna. La prima volta da solo in albergo. Wow.

Ancora non lo sapeva, ma stava prendendo uno di quei bivi che la vita ci propone e di cui comprendiamo le conseguenze solo più avanti.
Superò il test sia a Bologna che a Siena, alla faccia della commissione di maturità.

Il resto lo conoscete, sono passati 30 anni, il ragazzotto in effetti scrive, ma tutti i torti la commissione non li aveva visto che più che uno scrittore di successo è uno scrittore sul cesso: scrive infatti quando riesce a ritagliarsi degli attimi di intimità.

Ah già: il ragazzotto non è più smilzo.

La scatola di cartone

Sotto il bancone del negozio c’erano dei grossi scatoloni che contenevano alcune carpette. Dopo aver ascoltato distrattamente il tuo nome, l’aiutante del fotografo si sporgeva pigramente e faceva scorrere le dita fra quei plichi, prima di prodursi in un laconico: non sono pronte, torna domani.

Chi non ha mai avuto la fortuna di portare a sviluppare un rullino non può sapere di cosa sto parlando. Non può cogliere l’emozione che si provava ricevendo quel tesoro prezioso, l’ansia di dare un’occhiata rientrando a casa, vedere cos’era stato delle nostre meravigliose fotografie, se i prodotti della nostra immaginazione si erano trasformati in immagini o erano rimasti sospesi nel limbo delle foto mal riuscite, quelle che lasciavano solo un ricordo sfocato e buio di sé.

La mia generazione è cresciuta imparando da subito a dover gestire le attese. Le attese di venti o trenta minuti perché si caricasse un videogioco, quelle perché il nastro in autoradio arrivasse in fondo prima di poterlo girare, le attese di diversi giorni per ricevere finalmente quelle maledette fotografie sfocate, con la zia con gli occhi chiusi e la testa del cugino spilungone tagliata dall’inquadratura.

E però tutte quelle delusioni sono servite a qualcosa. Abbiamo imparato a meditare prima di quel click. Ci siamo chiesti se davvero quella fotografia poteva avere senso, se sarebbe interessata a qualcuno. Abbiamo selezionato, e oggi, in una scatola di cartone in fondo all’armadio del soggiorno, possiamo godere il risultato di quelle scelte. Abbiamo una ventina di foto della festa per la Prima Comunione o della Cresima e anche meno per quella del compleanno (con un rullino si facevano almeno tre feste minori come i compleanni o le gite, oppure una maggiore come i sacramenti o le gite fuori regione). Sono lì a testimonianza di quel che è stato. Cosa accadrà invece dei nostri ricordi? Delle 150 foto scattate controluce per una passeggiata sui canali di Cesenatico, ce n’è una degna di essere tramandata? Fare fotografie costa poco, dite? Certo. Ma che ne sarà di quelle schedine di memoria? Qualcuno riuscirà a fare andare quei vostri hard-disk con migliaia di foto delle vostre simpatiche tazze con il latte nel cappuccino che prende forme insolite, comprensibili solo a voi? Se vincerete il nobel, forse qualcuno si prenderà la briga di scavare tra la vostra spazzatura digitale.

In caso contrario, di voi rimarranno le scatole nell’armadio del soggiorno: qualcosa dell’infanzia rimarrà, per quello che è venuto dopo pazienza.

C’era una volta la videoteca

videotecaA proposito di oggetti e ambienti che i nostri figli non conosceranno mai, oggi voglio parlare della videoteca. La videoteca è l’ambiente più anni ottanta che mi venga in mente, raccontata anche in tanti film e telefilm (il primo che mi viene in mente è Clerks).
La prima volta che entrai in una videoteca avevo più o meno dodici anni. Era una stanza non troppo grande, vuota, con un bancone dietro al quale sedeva una persona con il lavoro più bello del mondo. E sulle pareti… Sulle pareti tutte quelle copertine di videocassette che riproducevano decine di film diversi, in larga parte film d’azione americani e commedie italiane. Da qualche parte in giro ce n’è ancora qualcuna, non so, di sicuro sembrano passati secoli, sono passati una trentina d’anni. I ragazzi di oggi sono abituati ad avere a disposizione decine di canali dedicati, film on demand, bauli pieni di dvd. L’abbondanza dell’offerta culturale a loro disposizione è forse paragonabile all’abbondanza alimentare di cui abbiamo goduto noi rispetto ai nostri genitori. Ma così come noi non abbiamo mai forse assaporato davvero il gusto della fetta di torta della domenica, abituati ad avere la dispensa piena di biscotti,allo stesso modo a loro mancherà quel girovagare tra copertine alla ricerca del film che convincesse tutti e tre. Sì perché un nostro compagno di classe fu il primo ad avere in casa un videoregistratore, allora in tre andavamo a scegliere un film da vedere a casa sua. Ovviamente quando avevamo trovato un accordo e chiedevamo il film quello era già fuori, ed era fuori anche la copia che la persona con il lavoro più bello del mondo aveva fatto. Quella piccola azione illegale non era niente in confronto al mercato di film pirata che sarebbe fiorito di lì a poco: film ripresi direttamente in sala, con colori inesistenti in natura (mi capitò poche volte, meglio un film di qualche anno prima che almeno si poteva vedere che non quell’osceno simulacro di film rubato). Ogni tanto però la persona con il lavoro più bello del mondo nemmeno ce lo diceva che era una copia (era bravo a dissimulare) e lo capivamo perché il protagonista aveva un colorito verde acqua e parlava con nonchalance ad una donna arancione. Orribili esperienze che per fortuna i dvd, i blueray e adesso i film online hanno risparmiato alle nuove generazioni. Generazioni che non proveranno mai la terribile onta di dover pagare la multa per non aver riavvolto il nastro (succedeva anche questo).
Una decina dopo arrivò il dvd, e con esso una definizione decente, e molti di quelle persone persero il loro bellissimo lavoro. Si perché il dvd ti veniva distribuito da una specie di bancomat dal quale sceglievi il film dopo aver inserito i soldi. Vedo già la faccia dei quarantenni al di là del monitor che annuiscono. Per carità in centro c’erano dei negozi di Block Buster con i film esposti, e le patatine, e i videogiochi, e tutta quella merce che ti fa impazzire a ventotto anni. Ma in periferia, quei posti meravigliosi non c’erano. C’erano gli sportelli automatici. La videoteca non aveva più quel fascino dell’osservazione delle pareti, alla ricerca dell’ultimo film in fondo alla fila. C’era quel monitor, la tua schedina con il codice… E la riconsegna in giornata. Cioè, in nottata, perché se riconsegnavi il dvd dopo averlo visto risparmiavi sul prezzo. E quante passeggiata nella notte bolognese ho fatto per riconsegnare i dvd dopo averli visti, con il freddo, la pioggia e qualche volta la neve. E meno male che non c’era la multa se non lo riavvolgevi.

C’era una volta l’audiocassetta

Sarà che ho superato i 5000 post e oltre dieci anni in compagnia di questo blog, e ritrovare lo smalto dei primi tempi è difficile. Sarà che superati i 40 la tendenza alla nostalgia si accentua. Sarà che mia figlia ha trovato una cassetta audio e mi ha chiesto: cos’è? Insomma, ho deciso di aprire una nuova rubrica in questo blog, che chiamerò “C’era una volta”. E non voglio dedicarla certo all’analisi storica (io? ma quando mai) e nemmeno ad un dibattito e signora mia si stava meglio quando si stava peggio.
Semplicemente, voglio dare spazio a tutto ciò che è scomparso dalla nostra vita negli ultimi decenni e che prima o poi mia figlia (o i vostri) potrebbe scoprire per poi domandarvi: cos’è? Cos’era?
Voglio cominciare questa rubrica proprio con l’audiocassetta. Con quel meraviglioso pezzetto di plastica che conteneva una o due ore di audio (ma ce n’erano anche da 30 minuti, non ho mai capito perché). Che non ti permetteva di saltare una traccia o riascoltarne un’altra, se non al prezzo di un noiosissimo riavvolgi nastro. Che attenzione, non era un optional sempre incluso: la prima autoradio di mio padre (un mattone pesante e ingombrante da portarsi sempre dietro: con l’avvento del frontalino sono scomparsi anche i borselli da uomo, domandatevi perché) per esempio non ce l’aveva. E se un lato era un po’ più lungo dell’altro occorreva attendere qualche minuto in silenzio prima di girare il nastro oppure sacrificare la prima canzone del lato B. Oppure ricorrere alla matita del praticone, o alle penne Staedler, le mie preferite quando si trattava di riavvolgere il nastro.
Si perché, cari miei minorenni alla lettura, c’era il lato B, audiocassettae i produttori lo sapevano bene e c’era una certa abilità nel distribuire le tracce tra le prime 5 o 6 e le seconde, con l’apertura che di solito era la title track e la penultima del lato B che immancabilmente doveva scaldare il cuore.
Certo, la musica c’è ancora, direte voi. Sì. Però il cd prima e i vari file fruiti da chiavette, schede oppure streaming semmai hanno sostituito il disco. Non l’audiocassetta. E il motivo è semplice: l’audiocassetta non solo permetteva di ascoltare, ma permetteva di registrare. Era lì tutta la magia. Non eravamo fruitori passivi, ma in qualche modo produttori. Quando la pirateria era solo quella del Mar dei Caraibi, io registravo il festival di Sanremo con un registratore appoggiato sotto il televisore, intimando l’assoluto silenzio agli astanti, e imprecando tutte le volte che Pippo Baudo interveniva in anticipo prima che il brano sfumasse. Per non parlare di tutti i radiogiornali che ho registrato, mentre mio fratello raccontava storie improvvisate solo per il gusto di riascoltare la sua voce (ed era capace di andare avanti per ore: deve aver esaurito tutte le parole trent’anni fa, considerando com’è taciturno adesso). E poi, vogliamo parlare della compilation? La raccolta di brani romantici metallari per far breccia nel cuore della compagna di classe, con Never Say Goodbye di Bon Hovi, Amazing degli Aerosmith e Still Loving You degli Scorpions? Se ripenso ai miei tredici anni, ripenso alle compilation. Alla magia di quell’impianto Pioneer doppia traccia, che permetteva di trasferire un brano da una cassetta all’altra, con quella transumanza poetica dell’analogico che nel creare una copia perdeva sempre un po’ dell’originale per strada, fino ad avere traccia fantasma copia di copia di copia in cui recuperare la musica diventava davvero un lavoro di fantasia.
E poi la compilation ci costringeva a scegliere. Avevamo spazio per dieci, forse quindici canzoni, non di più. E con la paghetta dell’epoca non è che potessimo regalare una o più compilation ad ogni ragazza che non ci stava (io per esempio mi sarei indebitato paurosamente). Oggi in un’oretta puoi copiarti un terabyte di musica. Ma non c’è più il disegno di quel preadolescente innamorato che sperava che i capelli di cotonati di Jon riuscissero dove i suoi brufoli avevano fallito.

Il passeggino

Chi ha letto il mio romanzo “Ballata in sud minore” sa quanto sia portato a legarmi ad oggetti che mi aiutano a ricordare. Ma certo tutto non si può conservare, arriva il momento in cui occorre fare spazio. E così anche per noi è arrivato il momento di liberarci dei passeggini.
Il primo era un autentico fuoristrada, possente e carrozzato, in grado di garantire ogni confort al pargolo (chiusura ermetica contro la pioggia, imbottitura, ampie possibilità di movimento, cinture di sicurezza da caccia bombardiere, spazio per giocattoli, biberon e quant’altro). Il classico passeggino della giovane coppia che non bada a spese per la primogenita. Ma che soprattutto non valuta il peso di quel piccolo trattore destinato a comprimere più di qualche vertebra del genitore beato.
Dopo 7 anni di uso, non credo di aver compreso appieno la meccanica di quell’aggeggio. Fino all’ultimo ho sbagliato leva per cui costringevo le mie figlie a crollare all’indietro quanto l’obiettivo era solo bloccare le ruote, per non parlare di tutte le volte che disperato l’ho infilato nel portabagagli ancora aperto, vinto dalla sua tenacia nel rifiutare ogni mio tentativo di chiusura. Ne abbiamo passate tante, con quel passeggino. Come quel giorno che la postina in moto mi fece segno con la mano, mentre buttavo la spazzatura, per indicarmi  che la pargoletta anziché attendere trenta secondi buona era riuscita smuoverlo. Breve corsa sul marciapiedi per recuperarlo, con successivo capitombolo della piccola peste. Niente di grave, per carità, ma per lo spavento mi feci tre camomille di fila prima che la tachicardia mi desse tpassegginoregua. Ne ha fatti di chilometri, il piccolo suv, godendosi i momenti di celebrità, come la prima volta che è apparso dai nonni portando in sé il piccolo tesoro eccitato, oppure alla presentazione di “Bologna l’oscura“, in fondo alla sala, consapevole di attrarre l’uditorio molto più dello scrittore, grazie anche ai mugolii ruffiani del passeggero. Un po’ mi mancherà l’abitudine a guardarlo con la coda dell’occhio, parcheggiato sornione dietro l’albero al parco mentre aiuto mia figlia ad arrampicarsi sullo scivolo, e mi mancherà anche il suo capiente fondale capace di trasportare libri, giochi, ombrelli, biscotti, cambi, insomma il minimo indispensabile per chi esce di casa con un bimbo che ha meno di tre anni.

Il secondo passeggino mi catturò un pomeriggio che facevo la spesa in un centro commerciale. Era incredibilmente sexy, così slanciato, leggero, esile eppure resistente. Fu amore a prima vista. L’immagine rassicurante di un personaggio disneyano l’avrebbe fatto ben volere anche alle passeggere, mentre io di quel passeggino amavo la semplicità. Niente imbottitura, una copertura appena accennata, niente fronzoli, solo muscoli scattanti e rapidità. Un passeggino capace di chiudersi in pochi secondi e di entrare persino nel minuscolo bagagliaio di una utilitaria a metano. Ricordo ancora la prima volta che portai tutte e due le bimbe in centro, lo sguardo commosso della gente che ci vedeva salire in autobus, guardate quel papà con le due bimbe, che caro, e dire che non è nemmeno tanto giovane… Lo chiudevo e lo mettevo sotto braccio mentre con le mani tenevo ben salde le due eredi. Io, il passeggino e le bimbe abbiamo formato un quartetto vincente. Siamo stati più volte in centro, ai giardini Margherita, ma anche in vacanza, sulla spiaggia, in pineta, al teatro. Nulla sembrava in grado di fermarci. Liberi e leggeri come un diciottenne al suo primo inter-rail. Certo qualche grana me l’ha procurata anche lui, soprattutto  perché aveva solo due modalità di guida, con le ruote libere di girare o bloccate, ma le alternava gaudente senza alcun preavviso.

I nostri due fedeli segugi, per sette anni il primo, quattro il secondo, ci hanno aspettato, ogni mattina, in fondo alle scale, pronti per scorrazzare le bimbe al nido e riportarle a casa, per la domenica dagli zii e le passeggiate al parco, per correre mentre le risate del passeggero incitavano “più veoce, più veoce”, o trasformarsi in piccoli giacigli nelle serate più lunghe. Ma le bimbe sono cresciute e l’amministratore di condominio ci ha ricordato una volta di più che la loro occupazione del pianerottolo era abusiva.

E così i passeggini se ne sono andati, a ricordarci, una volta di più, che siamo di passaggio anche noi.

 

I giovani visti dagli altri

"Se volete me ne vado, ma non è che i giovani siano questo granché". "I giovani hanno bisogno di fare esperienza". "Non vedo alternative all’orizzonte".
La più brutta nazionale che io ricordi (quella che nell’83 non ci qualificò all’europeo era pessima ma almeno non fu umiliata dagli avversari) rappresenta una bella immagine del paese di oggi.
Un paese con un primo ministro settanduenne con il parrucchino e la cipria, con una classe dirigente che quando parla di "nuove leve" si riferisce ai quarantacinquenni, con sessantacinquenni che dopo aver ritirato la pensione vanno a fare i consulenti in azienda. Per carità, siamo un paese a crescita zero ed è un bene che anche i più anziani lavorino. L’importante è smetterla con quel "non vedo alternative". Alle alternative va data una possibilità. Finché Lippi vive in un mondo dei sogni che si è fermato al luglio 2006, non vedrà altro che non sia Cannavaro, Toni, Zambrotta e compagnia vecchia. Così come le aziende e le istituzioni dovrebbero ogni tanto fare spazio ai più giovani.
Il problema è che questo comporta rinunciare al potere (e ce lo vedete l’incipriato che fa un passo indietro) e soprattutto accettare la possibilità che i giovani siano davvero meglio e non facciano rimpiangere il passato.
Nel calcio c’è voluta un’umiliazione intercontinentale per capire che è ora di cambiare rotta. Nel mondo reale, purtroppo, per i giovani c’è ancora tanta panchina…