In fondo le pubblicità dei panettoni sono lì dietro l’angolo che ci aspettano. E poi non è che con tutto questo caldo si stesse poi così bene. Il lavoro nobilita l’uomo. Sai che noia sarebbe la vita sempre stesi in sdraio a prendere il sole?
Si vabbe’.
Il rientro è un trauma a cui non ci si abitua mai. Non è un caso che “la vacanza” sia stata sconosciuta agli uomini che hanno popolato la terra per milioni di anni, e l’abitudine di mollare tutto e godersela per tre settimana sia emersa solo a partire dal secolo scorso, almeno in forma così popolare. Hai voglia a convincerti che è un passaggio necessario: per quanto ci possiamo sforzare di essere seri e adulti, prima o poi ci sarà un dettaglio che ci farà ripiombare nella tristezza. Un costume da bagno rimasto appoggiato ad una sedia, un biglietto aereo stropicciato, quel libro che avremmo voluto leggere, e invece.
Tutto congiura contro di noi, perché diciamocelo, il rientro è innaturale, in natura non si rientra. Una volta venuti alla luce non torniamo nel pur confortevole ambiente materno, la farfalla non torna nel bozzolo e un fiore non torna germoglio. E allora, se non possiamo liberarci del ricordo dei bei tempi perduti (che già Virgilio ricordava essere uno dei sentimenti più dolci e dolorosi al tempo stesso), portiamoceli dietro, manifestiamoli orgogliosamente. Continuiamo a canticchiare l’esercito del selfie anche in ottobre, compriamoci l’album intero se esiste, magari la stessa canzone riproposta in dieci forme diverse. Sostituiamo il divano con una sdraio di tela. Guardiamo Teche Teche te tutto l’anno, al cinema e in surround. Presentiamoci in ufficio con la treccina colorata o gli occhiali da sole da cinque euro e mettiamo fuori dalla camera da letto il cartoncino “non disturbare”. Una sorta di omeopatia del rientro, probabilmente più inefficace ancora di quell’altra, ma come quella buona a distrarci un po’e a illuderci per qualche minuto.
Perché se tutto va bene tornerà l’estate, ma noi saremo un anno più vecchi, maledizione.