C’è il piccolo scatolotto giapponese che da anni continua ad autodefinirsi "geniale"; c’è l’utilitaria francese che in uno spot radiofonico simula un oscar in cui vince tutti i premi; ci sono gli stilisti che si compiacciono di stupire, scandalizzare, provocare, ma mostrare abiti, mai.
Una volta si pensava che la pubblicità servisse a vendere. Poi è cominciata l’era del customer care, della gestione del cliente, e la pubblicità, più che conquistare nuovi clienti, serviva a fidelizzare i vecchi e a far comprare loro nuovi prodotti consumando sempre di più. Adesso, le pubblicità più – non tutte, ma è una tendenza evidente – servono ad autocompiacersi.
Chi dirige le aziende vuole sentirsi dire quant’è bello, bravo e furbo, e se lo dice da solo. Forse è anche per rassicurare gli investitori, ma l’impressione è che lo spot sia un trofeo da esibire in consiglio d’amministrazione, al club con gli amici, in business class, mostrando la rivista patinata: questa è la mia azienda, sa. Siamo bravi, belli e furbi. Tanto più che non si investe, come la teoria economica insegna, quando le cose vanno male, ma quando i risultati sono buoni e si vuole celebrarli, buttando via il denaro inutilmente.
Più o meno quello che qualche anno ripetevano compiaciuti i giganti della Sony, finché non si sono resi conto che i consumatori compravano ormai solo Samsung. Perchè non saranno belli e bravi quanto certi direttori, ma i consumatori sono furbi eccome…