Sin City: quando si dice un fumettone
Frank Miller è un ottimo autore di fumetti americani che, visto il livello medio (Muoviti SuperCiuk, non c’è molto tempo! Dannazione Uomo Gommalacca, stavolta non mi avrai!) si è convinto di essere Dante.
Ha scritto una graphic novel (gli americani chiamano così i fumetti lunghi: allora Tex dovrebbe essere un graphic poem) che non giudico perché non l’ho letta, e ne ha tratto un film che giudico perché l’ho visto, Sin City, la città del peccato.
Non solo, Francuzzo ha pure preteso di intervenire sulla regia. Il risultato è un polpettone indigesto di due ore di squadrismo machista e sgangherato, infarcito di frasi fatte e scene pulp già (teste mozzate che esplodono, amputazioni di genitali, torture). Il direttore della fotografiaja scoperto che in digitale si possono colorare solo alcuni elementi e lasciare in bianco e nero il resto, e ripete entusiasta il trucchetto per due ore, come un ragazzino con la playstation nuova.
Dovrebbe esserci lo zampino di Tarantino, ma non c’è traccia di ironia (a parte due gangster con la fissazione dell’eloquio, completamente fuori contesto). La violenza di Tarantino è catartica, i suoi duri sono una caricatura di certi atteggiamenti da american hero. Qui no, Miller si prende maledettamente sul serio, il suo qualunquismo fracassone centrifuga pedofili e senatori corrotti, poliziotti che sfruttano le prostitute e sicari sadici, con una costruzione ad episodi della storia che, oltre ad essere poco adatta al cinema, alla fine lascia solo una sosddisfazione, quella di vedere sbudellati Vinicio Del Toro, Bruce Willis, Eliah Wood e tutti gli altri interpreti: così imparano a girare filmacci come questo.