Storditi da squadre di polizia, distretti e capitani che supereroeggiano sugli schermi televisivi rispettando i tempi delle pubblicità e senza richiedere mai uno sforzo interpretativo eccessivo alla telespettatrice che stira mentre segue la fiction, potremmo aver dimenticato che c’è un altro modo di raccontare storie gialle.
Il modo del cinema, quello vero, quello che sta agli sceneggiati televisivi come le lasagne stanno all’hamburger: e questo mondo vive tutto ne "La ragazza del lago", giustamente ricoperto di David (da non pronuciare "Devid" come alcune vallettone televisive che hanno preparato il loro curriculum più sulla costa smeralda che in una università) di Donatello.
Un film dove, tanto per cominciare, il paesaggio non è stucchevole cartolina pieno di stereotipi. Non ci sono preti simpatici e nemmeno agenti di polizia un po’ stupidi ma volenterosi. Non ci sono neppure madri di famiglia energiche e popolari. Ci sono lunghi silenzi, riflessi spettrali sul lago, sentimenti non espressi, ricordi che non vogliono andare via. Ci sono quei sensi di colpa che la cultura televisiva si ostina pervicacemente a ostacolare, vedi alla voce "chissenefrega" di tanti psicologi d’accatto e da salotto.C’è il dolore della malattia e dell’incapacità di ricoprire un ruolo che gli altri si aspettano da noi. C’è la disperata consapevolezza che non c’è scritto da nessuna parte che domani è un nuovo giorno e andrà meglio. Bravi gli attori, su tutti Toni Servillo ma anche Valeria Golino, che nei ruoli importanti ma da non protagonista dà il meglio di sè.
Andate a vederlo, ma senza patatine e popcorn da sgranocchiare, che non è il caso…