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Happy Town, ovvero la serie più straordinariamente balorda di sempre

HappyTownHo scoperto la serie televisiva più assurda, incredibile, maldestra e sfortunata di sempre. Ed Wood l’avrebbe amata. Talmente scritta male da meritare di diventare un prodotto di culto: si chiama Happy Town e vi spiego perché dovreste vederla tutti.

Ho una passione particolare per le mini-serie televisive; quelle insomma che si concludono dopo una stagione, con una decina di episodi al massimo. Credo che sia la durata necessaria per approfondire una storia ed eventuali sotto trame, con un approfondimento anche dei personaggi minori per il quali per esempio non c’è spazio nelle due ore di un film, senza però scadere nei passi falsi che possono verificarsi dopo decine e decine di episodi anche nelle serie migliori. Non è un caso che la trasposizione di romanzi spesso trovi in questi prodotti televisivi i suoi spazi migliori. Tanto per capirci, se volete vedere una serie di questo tipo fatta veramente bene, guardatevi Broadchurch, un piccolo capolavoro di alcuni anni fa.

E poi fate il confronto con Happy Town, la serie più incredibilmente cialtronesca che sia mai stata scritta. Non sto scherzando: la visione di Happy Town dovrebbe essere obbligatoria in tutti i corsi di scrittura creativa, cinema, comunicazione, perché è un autentico esempio di come non si scrive e produce un programma televisivo. L’aspetto più affascinante, però, è legato al fatto che non ci troviamo di fronte ad un prodotto amatoriale, di basso profilo, con budget contenuti. Al contrario. La serie è stata prodotta dalla ABC, gli attori si impegnano per quanto possibile, e la confezione è più che dignitosa. Non condivido infatti le critiche di chi l’ha considerata un prodotto diretto e girato male; per carità, anche da questo punto di vista ci sono dei limiti evidenti, ma niente che rimanga impresso. Gli americani sanno girare i telefilm, sanno gestire scene d’azione e paesaggi inquietanti, dai. In questa serie poi si usa spesso la tecnica delle canzoni il cui testo si intreccia con gli avvenimenti tanto caro a Cold Case, per dirne una. Il problema è che le scene d’azione devono avere un senso. Devi offrirmi una spiegazione logica a quello che dici. Happy Town non lo fa. Mai.

Certo il doppiaggio italiano è pessimo, ma immagino sia dovuto al fatto che i doppiatori siano stati frenati dallo sforzo di non ridere mentre recitano le battute di fronte alla sceneggiatura più farneticante degli ultimi vent’anni. Gli originali americani invece si impegnano, ci provano, anche se sono sempre più convinto che fossero tutti drogati oppure siano non attori in carne e ossa ma prodotti di animazione. Non si spiega infatti come a nessuno ad un certo punto sia venuto in mente di dire: ma che caxxo sto dicendo?

Ma andiamo con ordine. Happy Town è una serie mistery del 2010 in otto episodi. Già la sua storia ha qualcosa di affascinante: lanciata con un buon budget pubblicitario alle 10 di sera, quindi in una fascia non banale e comunque adatta al genere, è stata sospesa dopo appena tre episodi nel maggio 2010. La programmazione è ripartita a giugno per altri tre episodi, poi di nuovo sospesa. Gli ultimi due episodi, che ci crediate o no, non sono mai andati in onda in tv: per la vergogna il broadcast li ha trasmessi solo sul web. Ma dico io, avevano letto la sceneggiatura prima di metterla in onda? Qualcuno si era reso conto della storia più sconclusionata, azzardata, incoerente di sempre? Ripeto, una storia talmente balorda da lasciarmi affascinato. E qualcosa bisogna che vi racconti, della storia, senza fare spoiler.

Anche perché non potrei, perché anche se vi raccontassi tutto per filo e per segno, con ogni probabilità non ci capireste nulla. Come potreste? Sembra scritta da un ubriaco che utilizza a casaccio un programma per la produzione automatica di testi. Dunque, l’inizio non è dei più promettenti: siamo ad Haplin, Minnesota, la solita provincia americana dove tutti si conoscono, si vogliono bene, talmente serena da essere definita appunto Happy Town. Scopriremo poi che c’è una vecchia che può decidere chi farà lo sceriffo e può far aprire e chiudere le uniche (?) vie d’accesso alla città che neanche il Truman Show, ma vi assicuro che questi non sono i passaggi più illogici, anzi. Però c’è un omicidio, e una ragazza venuta da lontano per cercare qualcosa in una casa misteriosa. Una casa in cui si nasconde un oggetto misterioso, e per evitare che qualcuno sospetti dove sia, lo si nasconde in un piano dell’abitazione dove a tutti è vietato entrare. Oggetto che avrebbe potuto tranquillamente essere distrutto ma che invece è conservato lì, con impronte e tracce e quant’altro. Geniale. Vi dirò, dopo lo scetticismo iniziale, la storia ha cominciato ad appassionarmi. Non capisco infatti -seriamente – l’iniziale insuccesso, perché i primi tre episodi lanciano talmente tanti percorsi, indizi, suggerimenti, che uno si dice: cavolo, ci sanno davvero fare. Tutti questi personaggi, tutti questi misteri. Non ci sto capendo una emerita fava per quanto mi sforzi, non vedo l’ora che mi svelino quello che non ho notato. Già dalla quarta puntata ti viene però il dubbio che forse nemmeno gli sceneggiatori siano poi così sicuri del fatto loro. Perché va bene, il delitto principale si è risolto in fretta, ma nel frattempo sono avvenuti decine di episodi misteriosi che dovranno pure avere un senso. Attenzione, qui faccio spoiler: non hanno alcun senso. Avete presente tutti quei passaggi di Lost che sembravano aprire un percorso di marcia che poi gli autori decidevano di abbandonare? Per una serie così lunga era anche comprensibile, soprattutto perché cominciavano a verificarsi soprattutto a partire dalla terza stagione. Prima di allora, la storia aveva tenuto. In Happy Town la storia deraglia meravigliosamente senza alcun rispetto per la logica, la natura umana, la psicologia e qualunque mondo possibile già dopo quattro episodi. La storia infatti fa emergere come nella cittadina da anni imperversi un “uomo magico” che fa sparire donne e bambine. E quindi tutto sembra rivolgersi verso questa direzione, cioè l’arresto dell’uomo magico. Mentre osservavo l’ultima puntata, guardavo nervosamente i minuti che mancavano al termine, dicendo: diavolo, ci sarà qualche indizio, adesso. Il colpo di scena. Il gioco di prestigio. E ho atteso fino agli ultimi due minuti, quando in effetti scopriamo chi è l’uomo magico. Forse. Perché, se non sono stato chiaro, ho continuato a non capirci una cippa lippa fino alla fine. Non vi dirò chi o cosa potrebbe essere l’uomo magico, questo è ovvio, ma quello che vi dirò è che è impossibile che lo scopriate. Non pensate di essere abbastanza intelligenti; anzi, più intelligenti siete, peggio è. Se vi fate una ricerca in rete, scoprirete che nessuno ha capito niente. Perché, tanto per darvi un’idea, è come se alla fine del Sesto Senso (attenzione, spoiler, ma cavolo, l’avete visto tutti, no?) scoprissimo che si, Bruce Willis è morto, ma è stato ucciso da un cugino di secondo grado del bambino che passava di là, era incavolato per un’unghia incarnita e che prima lo ha avvelenato, e poi gli ha sparato per confonderci le idee. No, non basta, non sono abbastanza delirante. Diciamo che un po’ come se scoprissimo nelle ultime pagine che Renzo e Lucia sono due extraterrestri venuti per impossessarsi del pianeta e che Don Rodrigo era un poliziotto venuto dal futuro per fermarli. No, neanche così. Non sono all’altezza. Bisogna che guardiate questa serie per godervi appieno la più straordinaria attaccatura con lo sputo che mai sceneggiatura umana abbia saputo produrre.

E qui c’è il vero mistero: forse i produttori speravano in una seconda stagione in cui avrebbero spiegato qualche passaggio? Seminando indizi da sfruttare magari anche per una terza e una quarta? Mi sembra la più plausibile delle spiegazioni, anche se sarebbe stato a quel punto molto più dignitoso un finale aperto, rispetto ad uno balordo. Tornando a Lost, temo che sia questa la serie ad aver maggiormente influenzato i folli autori, più che Twin Peaks che alcuni citano, con tutti quei misteri e quei presagi che non conducevano a nulla. Ma ripeto, in Lost i colpi a vuoto hanno cominciato ad emergere dopo un bel po’ di episodi, e tutto sommato il finale, per quanto forzato, per quanto lasci aperti molti punti contradditori, tiene. Il finale di Happy Town no, il finale di Happy Town è uno scherzo talmente fuori da ogni grazia di Dio che mi fa dire, amici, dovete assolutamente guardarlo.

Qualcuno dica alla Disney di piantarla con Violetta e di darci Castle

Immagine tratta da www.castle.rai.tv. Tytti i diritti ABC Studios riservati
Immagine tratta da www.castle.rai.tv. Tytti i diritti ABC Studios riservati

Ritengo che il prodotto culturale che meglio di qualunque altro identifichi gli ultimi dieci anni – su per giù – siano le serie televisive. Per carità c’erano anche prima, ma volete mettere? Vogliamo paragonare la sceneggiatura di Lost – che può piacere o meno, ma a cui non si può negare l’enorme lavoro creativo sui personaggi – con la psicologia da oroscopo di Branko “quello tosto del Vietnam e quello carino intellettuale” di Simon & Simon? Vogliamo paragonare l’introspezione interiore che anima Lilly di Cold Case e i suoi colleghi con i coniugi Hart di Cuore e Batticuore dove l’unica cosa davvero di spessore era la messa in piega della signora Hart?

D’altronde quelle serie anni settanta, per quanto ripetute fino allo sfinimento, le guardavamo su televisori 14 pollici in bianco e nero, di quelle attuali possiamo scandagliare ogni singola inquadratura con i mostruosi prodotti multimediali che popolano i nostri salotti. E a tal proposito mia figlia, da poco avvicinatasi a questo mondo, ha esordito con una delle mie serie preferite, Castle. Una piuttosto soft e adatta anche ad una bimba di 5 anni (e dai, per quanto possiate essere sconsiderati non farete mica vedere i bambini torturati e in catene di Criminal Minds ai vostri figli, spero). Certo qualche commento di tanto in tanto devo farlo, “Papà secondo me l’hanno pugnalata” “Martina il calibro 38 è una pistola, vuole dire che le hanno sparato”, ma mia figlia segue senza troppi intoppi la trama.

Martina però è figlia di una generazione abituata a rivedere i telefilm a piacimento, quando ne hanno voglia, così le ho preso la prima stagione in dvd. Dieci episodi già visti e rivisti più volte. Solo che siamo alla quinta stagione, e in dvd non c’è traccia della seconda! Non è questione di negozi, proprio non è mai stato prodotto in Italia. Non capisco sinceramente le logiche dei distributori (Castle è della galassia Disney), ma un programma trasmesso con successo su Sky e Rai Due cosa deve fare per essere disponibile nei negozi? Ci sono gruppi di Facebook che ne chiedono la realizzazione e addirittura raccolte di firme, ma la serie è disponibile in praticamente tutta Europa tranne che in Italia.
A proposito di Cold Case, ho scoperto per esempio che le difficoltà per l’uscita in dvd è legata alla colonna sonora (meravigliosa) che accompagna ogni episodio: i diritti costano tantissimo ai produttori, ma alla fine i dvd sono usciti. E Castle? Chi pretenderà i diritti su Castle? Per chi non l’avesse mai visto, non è tratto da un romanzo; anzi, hanno pubblicato tre romanzi tratti dalle serie. Per cui la cosa non si spiega. Chi si oppone alla distribuzione italiana? Avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffé? Non credo, bevono caffé in continuazione, nel distretto c’è persino una macchina espresso comprata da Nick. Non lo so, per ora registro gli episodi su hard-disk e comincio a valutare seriamente l’ipotesi pirateria.
Nel frattempo qualcuno dica alla Disney di piantarla con Violetta e di darci Castle.

P.S. Ma se i vari protagonisti di Law & Order, Criminal Minds, Castle, The closer, C.S.I. e compagnia bella alla fine di ogni episodio risolvono il caso arrestando i criminali, com’è che quelli di Cold Case o Cold Squad c’hanno sempre così tanti arretrati?
Il motivo è semplice. I casi che devono risolvere sono di venti o trenta anni fa: per cui la colpa è del Tenente Colombo, dell’Ispettore Kojak e di Starsky e Hutch, e se posso dirlo, un po’ lo sospettavo, con quelle basette e quell’abbigliamento imbarazzante lo capivo anche da bambino che non c’era da fidarsi di loro e che chissa quanti casi insoluti si sarebbero lasciati alle spalle.