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Il travaglio usato

Non è che io abbia una visione romantica del lavoro, per cui uno debba trovare motivazioni esistenziali dietro quello che fa per portare a casa lo stipendio: si lavora e basta. Non è che mi aspetti di trovare la poesia del sentirsi realizzati, l’attaccamento ai propri strumenti, la propria esistenza proiettata in quello che si produce. Però che cacchio, un minimo di coerenza: se fai il medico cerca di curare bene le persone, se sei scrittore cerca di scrivere con attenzione, se fai il muratore costruisci pareti solide. Ieri ho visto un netturbino che guidava uno di quei camion rumorosissimi che svuotano i bidoni della spazzatura con una gru. Già li odio perché mi svegliano ogni mattina facendomi sobbalzare e gridare all’invasore, ma questo è un altro discorso. Mentre la gru faceva il suo dovere, il tizio ha finito la sua sigaretta e ha buttato il mozzicone dal finestrino. Per terra. Insomma, la scena mi ha infastidito. Forse se la spazzatura si raccogliesse ancora con le scope, anziché seduti comodamente in un camion, non si sarebbe comportato così, il cafone. Ma non è colpa dei netturbini: se gli scrittori dovessero lavorare di polso o per lo meno con la macchina da scrivere (e lì se sbagli non cancelli), forse scriverebbero meno cavolate, e se i medici dovessero preparare i composti curativi, forse li prescriverebbero con meno facilità. So quello che mi direte: è il progresso, baby, ci stiamo muovendo. Ma non so se stiamo andando avanti.